Non so da cosa dipenda esattamente. E' uno di quei momenti in cui si percepisce in ogni cosa la vibrazione del cambiamento, direi quasi della crescita. Questa provincia sta mutando, è in espansione, presto probabilmente anche le ultime antiche divinità che la abitano se ne andranno per sempre per lasciare il posto a nuovi dei. Città diverse si succederanno sullo stesso suolo senza essersi mai incontrate, a cui capiterà solo per caso di avere lo stesso nome. Tutto ciò può essere osservato da tante, molteplici prospettive. La politica, l'aeroporto, inattese rivelazioni di successi letterari del proprio vicino di casa, improvvisi fermenti culturali che esplodono in una miriade di event. Quando questo si unisce al proprio percorso individuale in un momento di profonda transizione, di trasformazione in qualcosa di altro, ci pare di trascinare insieme a noi ogni singola pietra di cui ci siamo nutriti insieme ai volti che ci hanno accolto per la prima volta nel consorzio umano, mentre congeliamo in vecchie cartoline tutto ciò che è stato, che eravamo, che non è più. Il centro è delocalizzato, frammentato, interscambiabile. E' la rivincita (o la terribile sconfitta omologante?) delle periferie. Nei citati fermenti, quanto ci sia di davvero rilevante è difficile dirlo ora. Forse nulla, forse tutto si regge su pilastri precari, di una precarietà disarmante. Ma qualcosa accade e Viterbo è sempre più centro e sempre meno viterbo. L'atmosfera è quella della surrealtà.
"Quello che c'era adesso non c'è"; era il 5 Aprile, un Giovanni Lindo Ferretti ormai reduce di un percorso che ci viene da lui narrato come all'arrivo, nelle braccia di Dio, alle porte di Vetralla. Dove in superficie i muri non sono ancora stati abbattuti e si trascina una stanca parodia di Peppone e Don Camillo, dove il punk giunse giusto ieri come evanescente sogno d'evasione dalle gabbie di uno squallido terziario, innestato brutalmente sulle gloriose miserie della civiltà contadina. Eccolo là uno dei miei pilastri, quasi uno scheletro nell'aspetto, o un santo sofferente che focalizza l'intera attenzione di un pubblico radical-chic ai Cantieri Musicali, che hanno capito che puntare su certa musica di qualità ha davvero un potenziale mercato in questa terra vergine. Non mi meraviglia tanto vederlo, quanto trovarlo a casa mia; quasi resto deluso anzi, come se fosse stata abbattuta una magica barriera che racchiudeva ed isolava il mio ingenuo mondo d'infanzia, la cui grazia solo ora può essere goduta,o forse mi dispiace di non essere stato io stesso l'artefice di tale distruzione/ricostruzione, come se qualcun altro mi avesse privato di questo diritto che io possedevo sull'intera collettività del mio universo. Il reduce salmodia, recita, si mette a nudo con cattedrali di parole dialogando con una groovebox umana, un violino ed un organetto. Tutto molto uniforme, tutto molto intimo, tutto cinto da un'aura sacrale. Sembra un cerimonia del Passaggio condotta da chi ha già vissuto e celebrato qualcosa di simile, magari anche più volte. Molti lo disconoscono ma alla fine tutti lo riconoscono. Chi l'abbia veramente capito, se io l'abbia veramente capito e se ci sia qualcosa da capire, a volte mi sembra difficile dirlo. Ma poiché succedono le età, questa terra per me, lentamente, non sarà più la stessa.
Venerdì 25 Aprile, festa della Liberazione in una nazione che non si è mai riconosciuta come tale. Ancora lì, stavolta l'evento è Federico Fiumani con dei presunto Diaframma. In realtà al basso c'è Andrea Ra e la batteria pesta parecchio. Di New Wave forse c'è solo la Telecaster e la voce di Fiumani, con il suo taglio di capelli che lo accomuna a Paolo Benvegnu ed all'alternativame vario che ha fatto la storia dell'undeground italiano per decenni. La provncia in questa serata sembra riacquistare una sua idenittà ma è più ampia, nazionale in una nazione che appunto, nel bene o nel male o chissenefrega, non c'è. Non si capisce un cazzo perché il posto non sembra fatto per questo tipo di cose. Ma va bene così, il mercato sarà pure in crisi ma in questo caso dei Cantieri Musicali sembra davvero avere un senso. Quindi grazie infinite per questo bieco capitalismo del live di qualità che ci tira fuori da queste miserabili pastoie di ignoranza e marginalità periferica. Mi sento quasi nella Firenze degli anni '80, tanto è esaltante quanto potrebbe esserlo la disillusione che mi aspetto. Ma è tempo di festeggiare perché stiamo crescendo e siamo di un passo più vicini ai nostri idoli.
Ancora, il giorno dopo, ci si rende conto che l'ARCI ormai organizza per davvero spettacoli sempre più grossi. Offlaga Disco Pax all'Officina Belushi, appena uscita da un duro colpo, un furto della strumentazione, quasi che qualcuno spaventato abbia deciso di passare all'azione in una sorta di rivolta luddista contro tanta profferta culturale. Ancora una volta il respiro provinciale è quello più ampio, bello, italiano. E gli Offlaga Disco Pax sanno essere tanto originalmente se stessi come forse quasi neanche i CCCP, dal cui stesso retroterra derivano, se non da loro stessi in buona parte anche se aggiornati nei suoni ai 2000. La narratività è protagonista indiscussa, toccante, acuta , ideologia a bassa fedeltà e sguardo distaccato ed analitico sulla quotidianità, il pubblico no nmanca, quasi sembra un miracolo, un risveglio. Mi ricordo quando eravamo noi quelli in cerca di un centro del mondo del tutto ipotetico e, oltre quel campetto di calcio e poche droghe leggere, nno avevamo neanche un immaginario utopico a cui aggrapparci. Gli Offlaga Disco pax sono piacevoli da ascoltare e da vedere, comunque tanto espressivi nelle loro pose quanto restano quieti e quasi immobili. Un piccolo fuori programma, uno scatto di furia repentina ed inattesa di Max Collini (voce) contro un qualche ubriacone che continua ad insultare il gruppo da sotto il palco, rende più movimentata la serata che è già abbastanza carica. Non rovina però questa energia che è positiva, anzi il gruppo ne esce con dignità ancora maggiore. Alla fine riesco persino ad accaparrarmi la mia barretta di wafer Tatranky, non potevo chiedere di meglio. E' andata di lusso quasi a tutto. Faccio i miei complimenti a Daniele Carretti (chitarra, basso, piano), mi guardo intorno: mi appare un'immagine come di un documentario di storia dell'undergournd italiano trascorso sotto i miei occhi. In verità sono molto confuso, ma tutto questo mi esalta. Esco di fuori dal locale, ancora i soliti ubriaconi ma isolati tra più facce sorridenti rispetto al solito. Persino le "indie public relations" acquistano un significato che sa di qualcosa di valore. Aprile è freddo tra gli ulivi, che hanno imparato a conoscere rastrelli in bachelite.