in occasione della pubblicazione del sito della label versione 1.0 all'indirizzo www.subterralabel.com ed in vista del Copyleft festival d'Arezzo
Copyleft – che cos’è?
Ritengo non sia opportuno spendere qui parole per comporre nei dettagli una storia del copyleft.
Per questo esistono già in italiano validi contributi di persone ben più preparate e competenti, a cominciare dal breve manuale divulgativo di Simone Aliprandi, sul quale mi baserò largamente nello schema concettuale di questo riassunto, o la relativa voce su Wikipedia.
Anche alcuni concetti base dovrebbero già essere conosciuti, come quello di copyright, licenza e diritto d’autore. A tal fine è possibile approfondire sempre su Wikipedia leggendo qui.
Mi limiterò a dire che questa filosofia, strettamente legata allo sviluppo della rete, nacque negli anni ‘80 in ambito informatico per distinguere il software “proprietario” (quello i cui meccanismi base sono visibili e modificabili solo dai detentori del copyright, per ragioni di sfruttamento economico) da quello “open source”, i cui codici sorgente sono a disposizione dell’intera comunità di programmatori che può liberamente intervenirvi per proseguire lo sviluppo di determinato software. Alla base della seconda scelta c’era la convinzione etica che il software dovesse rimanere uno strumento di sviluppo tecnologico più che di marketing e mero profitto.
Fin da subito “open source” e “free” non significò opposizione totale al copyright, tutt’altro: ci si basava proprio su questo, che per legge tutelava in esclusiva i diritti del creatore di un’opera fin dal momento della sua creazione, ma lo si rendeva uno strumento giuridico molto più flessibile e meno monolitico. In sostanza l’autore stesso disciplinava le modalità d’uso e distribuzione di un’opera sotto una particolare licenza. Nacque così il concetto di copyleft (un gioco di parole con left, participio passato di to leave, “lasciare”) ed i principi chiave furono racchiusi in un’apposita licenza chiamata GPL (General Public License) nell’ambito del progetto GNU di Richard Stallmann. La GPL permetteva all’utente di utilizzare il software, copiarlo e modificarlo liberamente alla condizione che se lo avesse ridistribuito o avesse creato altro software derivato avrebbe dovuto mantenere lo stesso regime di licenza.
Saltando di un bel po’, arriviamo alla fine degli anni Novanta e alla nascita di progetti che proponevano di applicare il copyleft non solo in ambito informatico, ma più in generale nel campo dell’informazione e di qualsiasi opera creativa e dell’ingegno. Tra le varie licenze che ogni iniziativa propose, le più determinanti ed oggi note sono quelle diffuse nel 2002 dal progetto Creative Commons, guidato da un gruppo di giuristi di Stanford a cui fa capo Lawrence Lessig.
In soldoni quindi cos’è il copyleft? Semplicemente un modo differente di gestire i diritti d’autore, in maniera tale che questo dipenda dalla volontà dell’autore stesso e non venga così applicato nella maniera tradizionale e standardizzata, bloccando di fatto alcune basilari libertà di scelta come quella di diffusione e diritto di copia gratuita dell’opera.
Applicando una licenza libera alla mia opera specifico direttamente al fruitore cosa è libero di fare con quell’opera e a quali condizioni.
Quali sono gli effetti pratici più immediati allora?
- Innanzitutto si elimina la necessità esclusiva di intermediazione da parte di un partner imprenditoriale (editore, etichetta etc…) o di gestione dei diritti (SIAE etc…), poiché l’autore può entrare in comunicazione ed in contatto diretto con i fruitori finali dell’opera specificando loro come comportarsi mediante l’applicazione della propria licenza.
- Qualora tale partner ci fosse (e spesso è auspicabile), tale sistema porterebbe ad un riequilibrio dei rapporti contrattuali. Per fare un esempio, finora un autore si è trovato generalmente a cedere gran parte se non tutti i diritti al proprio editore che decide come gestirli per trarre guadagno dal proprio investimento (es. produzione e vendita di copie o quant’altro).
- Molta più elasticità e libertà dell’autore di decidere come gestire i diritti anche di singole e diverse opere, nonché adattabilità all’evoluzione continua della comunicazione multimediale.
- Un modello economico equo e sostenibile per il mondo informatico e della produzione intellettuale.
Per vedere come funzioanno nel dettaglio e come applicare in pratica le licenze Creative Commons, consiglio la lettura dell'opuscolo sempre di Aliprandi dal sito www.copyleft-italia-it
SUB TERRA – perché il copyleft?
Il concetto originario di indie e D.I.Y.
Fin qui abbiamo seguito fedelmente Aliprandi, riassumendo il già conciso opuscolo di cui si raccomanda la lettura come introduzione ad un conoscenza consapevole del copyleft.
Perché allora noi abbiamo scelto il copyleft, qual’è nello specifico la posizione di Sub Terra?
Noi siamo “musichieri” di alternative rock e robe simili, ma il discorso a maglie larghe potrebbe adattarsi a qualsiasi tipo di produzione intellettuale, "colta" o "popular" che sia. Tutto è cominciato col recuperare il concetto originario di "indie". Forse pochi lo ricordano, poiché ormai è degenerato in una mera etichetta da scaffale di supermercato per indicare certe sonorità easy, certa moda, certe tendenze per un target di consumo ben determinato. Con questo non si vuole demonizzare tutto ciò che viene prodotto sotto tale etichetta. Noi stessi siamo appassionati di molta roba che rientra nel calderone “indie”, come è oggi normalmente inteso. “Indie” però significava in origine “independent”, e questo niente aveva a che fare con determinati generi di musica rock o pop che fosse. Indicava piuttosto un preciso e consapevole atteggiamento, i cui capisaldi concettuali stavano nel sostanziale disinteresse a problematiche di marketing che avrebbero limitato la purezza e la libertà d’espressione.
Non che impellenze di immediata fruibilità o “vendibilità” non esistessero, ma il bilanciamento era decisamente a favore della libertà di creazione e, per quanto riguarda i “mediatori” come etichette e simili, dei rapporti umani prima del business.
Simili ma più radicali, i movimenti D.I.Y. (Do It Yourself, letteralmente “Fattelo Da Solo”) che nacquero in seno ai mille rivoli del punk, ed in particolare hardcore, elaborarono (in virtù della propria ferrea etica, del messaggio “eversivo” e del forte senso d’appartenenza ad una comunità) un rifiuto radicale ed iconoclasta a qualsiasi tipo di compromesso, preoccupazione commerciale o intermediazione esterna. Autoproduzione ed autodistribuzione divennero quindi delle esigenze primarie, mentre si affinava sempre più efficacemente la capacità di organizzarsi in reti e circuiti veramente alternativi all’interno di una determinata comunità internazionale (attraverso fanzines, distro etc…) .
L’etica punk hc esiste tuttora ed è ben vitale nelle sue ali dure e pure, ma come è comprensibile non esce al di fuori della propria comunità autogestita. “Indie” invece, come si è visto, non è più che un mero contenitore in realtà piuttosto vuoto di contenuti (destino comune questo a tutte le definizioni come grunge, post-rock etc…, create dalle rivistone più per utilità di segnalazione al consumatore finale – senza voler stigmatizzare in assoluto ciò).
Per quanto riguarda Sub Terra, ci sia concesso di recuperare l’attitudine “indipendente” e l’orgoglio D.I.Y. più puri senza sentirci ingenui utopisti. D’altronde la stessa definizione di “label” è piuttosto impropria, perché non siamo un’etichetta in senso tradizionale né potremmo esserlo, ma è utile per esigenze di immediata comunicabilità (non a caso abbiamo pubblicato la parte estesa ed approfondita del manifesto dietro un link, in fondo alla presentazione breve).
Se oggi può esistere ancora qualcosa che abbia anche solo vagamente un poco del nucleo di significato di “indipendente” , questo non può che sposare la filosofia copyleft.
La digitalizzazione e la diffusione di massa della rete hanno abbattuto i costi di autoproduzione e reso possibile l’autodistribuzione come prima mai. Davanti a questi cambiamenti così veloci, imprevedibili e potenzialmente rivoluzionari si può e si deve sperimentare.
Opportunità digitali
Il discorso qui si amplia a molte cose. Innanzitutto, riferita all’ultima affermazione sulla digitalizzazione e sulla rete, la proliferazione di autoproduzioni “scadenti” nel mare magnum di MySpace e simili e poi la crisi e disintegrazione del settore discografico (che si riallaccia alla “crisi” più in generale, come vedremo). Per molti tali fenomeni, dissolvendo il circolo di creazione-distribuzione-fruizione come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, significano rendere molto più difficile se non impossibile per artisti di talento emergere in mezzo all’oceano di mediocrità digitale (portato della “democratizzazione” produttiva), vanificando le già esigue possibilità che un artista aveva di ricevere da questo un equo guadagno.
Stiamo indubbiamente assistendo ad una transizione di notevole portata, e non si sa bene dove andranno a parare quei processi che sono già in atto.
Personalmente non vediamo qualcosa di negativo in tutto questo fiorire di autoproduzioni. Premesso che un uso consapevole e ragionato dell’utilizzo della rete richiederebbe all’uente una critica scrematura e verifica dei suoi contenuti molto più di quanto sia mai necessitato per altre fonti di informazione (il pericolo è proprio di annegare in mezzo a questo mare di cose “inutili”), chi ha talento ed un obiettivo chiaro avrà certo capito attraverso quali canali cominciare a muoversi ed in che modo utilizzare i nuovi mezzi. Le nostre abitudini di ascolto stanno cambiando: si torna ad avere molta più attenzione agli eventi dal vivo (tanto è che i prezzi sono lievitati tantissimo), le tourneé dei grupponi non servono più a promuovere il disco, ma viceversa, il supporto fisico come prodotto di massa sta scomparendo ed allo stesso tempo, paradossalmente, si rivaluta da parte di sempre maggiori cultori la passione per l’oggetto bello e significativamente artistico. Se c’è una crisi è quella della grande industria e di tutta la filiera annessa, che però continuerà a mantenere lo strapotere reinventandosi su nuovi tipi di consumo di massa (le battaglie sulla pirateria e simili non sembrano avere molto successo).
Non vediamo perché per il mondo “indipendente” questa rivoluzione debba essere qualcosa di negativo. Il mercato delle tradizionali “indies” si era trasformato ormai in un mero sottoprodotto
di quello delle majors: cosa comprensibile se volevano sopravvivere. Il web dà la possibilità di riscoprire quello spirito pionieristico sulla scia del quale nacquero via etere le radio libere e le prime etichette indipendenti. Inoltre offre possibilità enormi a chi possiede una salda etica D.I.Y. e non vuole scendere a nessun tipo di compromesso (il pubblico di costui sarà già scremato in partenza per propria consapevole scelta).
C’è solo da sperimentare, e si può almeno sperare di tornare ad un bilanciamento più equo dei rapporti tra autore ed editore evitando per esempio pratiche come l’editoria a pagamento, ormai prese per normali anche e soprattutto dalle “indies”.
La qualità delle produzioni si differenzia ancora per l’investimento che c’è dietro, nonostante una produzione discreta sia ormai alla portata di tutti.
Non è per niente detto che cambiando le carte in tavola gli artisti non abbiano più voglia di investire sulla qualità del loro lavoro perché non gli rientrerebbe nulla. E sei nvece, capendo con intelligenza quali sono le nuove opportunità, accadesse proprio il contrario, dal momento che è diventato impossibile secondo il sistema tradizionale?
Ben più in là di Wharol e della sua visione “cinica” di democratizzazione dell’arte, molti artisti anche fuori dal copyleft (un esempio è Takashi Murakami) hanno cominciato a serializzare e a vendere sotto forma di gadget ed in maniera totalmente autarchica le loro creazioni, mettendo al centro dell’importanza l’evento dal vivo (mostra, esposizione, concerto): per la prima volta l’autore può decidere di fare a meno di un’intermediazione, ed il concetto stesso di underground è ribaltato.
Ritorno al "raggio corto"
E’ qui che il discorso si allaccia a quello più generale della “crisi” e si fa simile ad altri attivi da tempo, come quello del commercio equo e solidale.
Il capitalismo ha già dimostrato di non essere un modello produttivo sostenibile.
Oltre alle enormi sperequazioni, danni, tensioni e conflitti che provoca a livello globale, è matematico che prima o poi collasserà su se stesso, come già sta dimostrando.
La “crisi” attuale può essere piuttosto un’opportunità: cominciare a pensare open e copyleft
significa anche utilizzare i nuovi strumenti tecnologici per creare benessere reale e tornare ad un tipo di economia sostenibile, umano, dalla filiera più corta, che rivaluti il patrimonio delle piccole comunità permettendo a queste di non essere più isolate, ma in contatto con il mondo intero.
Non più un modello produttivo di imposizione dall’alto, da parte di una sola macchina gigantesca, e di un consumo passivo ed acritico da parte di chi compone gli stessi ingranaggi di quella macchina, ma un modello orizzontale che includa tantissimi piccoli-medi nodi produttivi sparsi su tutto il territorio, riscoprendo anche le campagne ed il senso sociale di comunità ed appartenenza, nodi che sono interconnessi in una trama che di fatto non ha limiti di estensione geografica. E’ il significato di una parola come “glocalità”, a cui idealmente ci ispiriamo non rinnegando la nostra estrazione provinciale (in senso lato).
E’ una posizione ed un messaggio che si cela dietro ad una minuscola iniziativa come quella di Sub Terra, forse la cosa più importante dietro alle modeste quattro note che distribuiamo sulle nostre pagine.
Non sappiamo se diverremo mai una piccola “bottega del commercio equo e solidale” della musica. Probabilmente no, e nemmeno ci interesserebbe molto, ma nel messaggio di “cultura open” in senso lato rientra tutto questo.
Per quando riguarda quindi la convinzione che la conoscenza debba essere condivisa liberamente sul web perché possa instaurare un circolo virtuoso di diffusione delle idee, e di conseguenza un modello alternativo e più equilibrato di economia , ci rifacciamo alla presentazione del movimento Costozero che da tempo si batte per la libertà di espressione e d’informazione: (tratto da www.costozero.org )“ […] La libertà di comunicazione interpersonale è espressamente sancita dalla Costituzione Italiana nonché dalla normativa comunitaria ed internazionale. Ma in cosa consiste questa libertà, oggi, in Italia?
Consiste nell'acquisto di strumenti e servizi di comunicazione e di informazione: quello che è un diritto politico del cittadino, un diritto fondamentale per una società che vive nella così detta "era della comunicazione", è considerato niente altro che un business. Siamo esseri integrati con il telefono, il cellulare, la televisione, la radio, il computer e le più nuove tecnologie: ma siamo esseri sviluppati? Abbiamo tutto, ma cosa siamo? Siamo un business, un business a cui è sempre più vietato di pensare, di essere informati obiettivamente, di essere alfabetizzati senza essere manipolati, di far sentire la propria opinione (o addirittura di averne una), di nutrire speranze di cambiamento, di credere in uno straccio di ideale, qualunque esso sia (al punto che ormai avere un'idea buona ma anche concreta significa essere sempre e comunque degli utopisti): ciò che conta è che tutto resti com'è, perché è in questa stasi che trova l'equilibrio l'unico sistema esistente, quello economico. E come reagisce la politica a questa situazione sconfortante? Educa alla rassegnazione e al qualunquismo. Vogliamo che la seriosità del politico continui ad essere scambiata per serietà, la sua dialettica per progettazione, la sua demagogia per amore infinito verso le masse? Se lo vogliamo, è sufficiente non mettersi in discussione. Proprio così, non bisogna mettere in discussione il sistema politico (inesistente), ma noi stessi; siamo noi quelli a cui dobbiamo dare dei sonori ceffoni, non i politici: dobbiamo svegliarci dallo stato di torpore che il benessere ha inflitto a tanti di noi e tornare ad essere non animali da gabbia (una gabbia con ovatta tecnologica idonea al sonno profondo e alla vanità), ma animali politici, persone che, innanzitutto, vogliono capire anche quando non sono in gioco i propri interessi, che non si fermano all'apparenza, che cercano la concretezza e non le rivoluzioni impossibili. [...] Si sta producendo una nuova analfabetizzazione ed una disparità di opportunità tra chi conosce la rete e può accedervi, e chi, invece, ne rimane fuori: non è una mera questione generazionale, economica o culturale, ma riguarda la società nel suo complesso. Non si può porvi rimedio con una semplice propaganda di alfabetizzazione: il Movimento Costozero promuove l'informazione gratuita e l'accesso gratuito ai mezzi di informazione.[...]"
Sub Terra: etica ed estetica
Se Sub Terra non è una label in senso stretto, è un contenitore chiaro ed organizzato che seleziona i propri contenuti e li propone ad una certa utenza ideale. In questo modo già si comincia ad ovviare al problema della perdita nel “mare magnum”. Naturalmente per molti anche noi potremmo rientrare nella categoria “produzioni scadenti”, dal momento che le nostre produzioni (ma già non le distribuzioni) sono realizzate tramite i mezzi a noi disponibili al momento (poco più di semplice home recording) e che per scelta non puntiamo assolutamente a trasformare tutto questo in un lavoro o perlomeno nella nostra principale fonte di reddito. Preferiamo avere un atteggiamento rilassato, più umano se vogliamo, che ci possa rendere la serenità necessaria alla creazione di contenuti che abbiano veramente un valore ed un'onestà non solamente lirico-espressiva, ma anche intellettuale. Se poi appunto diverrà una fonte di “guadagno alternativo”, ovviamente senza mai sbilanciare i sani equilibri, non ci farà certo schifo. Ma sarà molto difficile: un po’ perché siamo davvero troppo punk, ingenui e romantici per ragionare in termini di business, ed un po’ perché ancora è roba da pionieri. La cosa importante è lanciare il messaggio dal nostro umilissimo piccolo. Per quanto ci riguarda quindi, la filosofia alla quale ci ispiriamo è quella del duo indie-pop Humpty Dumpty e Renato Q. , che è anche una lucidissima riflessione sul ruolo che svolgono i social networks e su come potrebbero essere utilizzati. La citiamo ampiamente come se parlasse per noi: tratto dal MySpace di HD (www.myspace.com/dumptyhumpty): “ Credo che se siete passati da queste parti e vi siete imbattuti in questa che è la mia pagina su Myspace abbiate già un’idea approssimativa del contesto in cui ci muoviamo. Sapete a che serve Myspace e cosa ci si può fare, così state lentamente affinando la vostra efficacia: confezionare una bella gif con “Grazie per l’add” a caratteri psichedelici, aggiungere apprezzamenti garbati relativi alla foto dell’eventuale ragazza della band e studiare due righe piene di simpatia e wit da piazzare nei commenti per far intendere a chi detiene la pagina che i primi venti secondi del primo pezzo -che parte in automatico- sono di vostro gradimento. [...] E’ uno dei tanti codici condivisi della vita: sappiamo già muoverci con agilità fra presenzialisti scorreggioni di scarso valore espressivo e artisti dotati di buon talento. Già solo perché su cinquanta utenti che confezionano -più o meno- canzoni uno non ha in totale spregio la Musa potremmo dire che Myspace svolge una grande funzione.
Probabilmente non è un luogo libero (si è mai visto qualcosa di libero che occorressero comunque dei soldi a metterlo in piedi?) e sempre meno tenderà ad esserlo, ma fintanto che dura così com’è, godiamoci le sue possibilità.
Prendiamoci la prima soddisfazione di non avere gran bisogno di leccare disperatamente il culo a questa o quella piccola label senza grandi capitali da investire: del resto dovreste aver già capito che non è in primo luogo il vostro opinabile talento ciò di cui vanno in cerca, quanto piuttosto di qualche forma di hype che circoli già attorno al vostro alias. A loro spetta raccoglierne quanto più velocemente i frutti. Per far ciò occorre che siate più o meno potenzialmente vendibili o che abbiate già venduto sufficientemente per conto vostro. Come dar loro tutto il torto, schiacciate da un mercato totalmente in mano alla volgarità massimalista del capitale musicale proprio adesso che l’indie è dappertutto? Non ci resta che scegliere fra la roba di consumo “alternativa” (indipendente è un termine che in questo contesto ha poco significato) e la roba di consumo delle multinazionali. Le prime sono prodotte con cubase e (se di livello superiore) pro-tools, le seconde in degli studi professionali.
La seconda soddisfazione è non dover, ancora più umiliantemente, leccare il culo a questo o quel giornalista musicale, cartaceo o virtuale. E’ inutile che lo pressiate: se non v’è una qualche forma di hype già formata attorno al vostro moniker è difficile che possa cedere alle vostre insistenze. Se vi ha ascoltato lo ha fatto perché fa il suo lavoro, se non lo ha fatto ha già deciso che voi non fate parte del suo lavoro, e le vostre stronzate non lo convinceranno del contrario.
Ecco, Myspace offre questa possibilità, di bypassare qualcuna delle gerarchie che sino ad oggi hanno monopolizzato la nostra voglia di creare e diffondere la nostra musica.
Qui possiamo scatenare tutta la nostra assenza di talento senza dover per forza oscurare la nostra dignità (e arrivare eventualmente al disco sotto forma di straccio vecchio) e senza dover per forza rompere i coglioni a qualcuno. Certo, niente ci impedirà di soffrire perché, anche se in possesso di talento, nessuno o pochi se ne accorgeranno, ma almeno siamo qui, appena un po’ meno del numero complessivo degli italiani, a sceglierci e ad ascoltarci da soli.
Per render questo luogo non solo un neutro servizio, ma soprattutto affinché in esso si realizzi qualcosa non di semplicemente Utile, ma anche di Bello e Giusto, provate ad ascoltare bene e per intero meno musica e scambiare non soltanto pompini generici per ottenere visibilità sulla pagina altrui (e spesso di gente morta o sciolta) ma motivati e onesti giudizi.
Interferite, opinate, vivete. Giudicare non è reato [...]“.
Ciò non vuol dire che nel corso del tempo non miglioreremo la qualità delle nostre produzioni attraverso investimenti. Il nostro scopo è proprio quello perché amiamo le cose belle e siamo convinti della loro utilità, ma lo faremo con calma e senza condizionare le nostre vite in maniera irreparabile alla ricerca di una svolta “contrattuale” (quella sì utopica) che ci renda famosissimi. Ci basta cominciare ad organizzare eventi sul territorio ed avere il nostro piccolo pubblico, per poi connetterci senza limiti con realtà simili in giro per il web e spostarci dove sarà più idoneo come in una specie di “couch surfing artistico". Il nostro pubblico sarà in un cerchio né troppo stretto né troppo ampio. Poco ci interessano i lustrini indie rock e le relative pressioni: tutto quel mondo finot decadente e boheminène che ormai da tempo popola realtà come quella del M.E.I. di Faenza.
Di conseguenza i contenuti di Sub Terra (mi riferisco ai dischi come alla webzine) sono molto eclettici. Nessun genere prestabilito, nessuna anglofilia parossistica e nessuna ricerca spasmodica ed ossessiva della novità (caratteristiche con cui è stato ben plasmato il popolo indie). Solamente quello che tocca la nostra personalissima sensibilità. Che sia pura avanguardia intellettualistica alla John Cage o il pop o il punk rock provinciale più grezzo ed analfabeta non importa, se per noi ha un senso che espliciteremo all’interno della nostra visione.
D’altronde ci sembra anche stupido metterci ad operare categorizzazioni troppo rigide tra ciò che è “colto” e ciò che è “pop”. Sappiamo che esistono linguaggi molto diversi per un tipo di pubblico molto diverso, ma non per questo (ed entro i nostri stessi limiti culturali e di comprensione) eviteremo di comporre proposte eterogenee creando quindi differenziazioni all’interno della nicchia di pubblico ideale a cui ci rivogliamo, e che siamo convinti esistere. Ci atteniamo solo a quello che pensiamo sia in qualche modo vicino alla nostra idea di Bello e di Utile, nel nostro umilissimo piccolo, evitando di tirare fuori definizioni ingombranti quali “arte” .
Carlo, Cura di Vetralla, 05/09/09
Copyleft – che cos’è?
Ritengo non sia opportuno spendere qui parole per comporre nei dettagli una storia del copyleft.
Per questo esistono già in italiano validi contributi di persone ben più preparate e competenti, a cominciare dal breve manuale divulgativo di Simone Aliprandi, sul quale mi baserò largamente nello schema concettuale di questo riassunto, o la relativa voce su Wikipedia.
Anche alcuni concetti base dovrebbero già essere conosciuti, come quello di copyright, licenza e diritto d’autore. A tal fine è possibile approfondire sempre su Wikipedia leggendo qui.
Mi limiterò a dire che questa filosofia, strettamente legata allo sviluppo della rete, nacque negli anni ‘80 in ambito informatico per distinguere il software “proprietario” (quello i cui meccanismi base sono visibili e modificabili solo dai detentori del copyright, per ragioni di sfruttamento economico) da quello “open source”, i cui codici sorgente sono a disposizione dell’intera comunità di programmatori che può liberamente intervenirvi per proseguire lo sviluppo di determinato software. Alla base della seconda scelta c’era la convinzione etica che il software dovesse rimanere uno strumento di sviluppo tecnologico più che di marketing e mero profitto.
Fin da subito “open source” e “free” non significò opposizione totale al copyright, tutt’altro: ci si basava proprio su questo, che per legge tutelava in esclusiva i diritti del creatore di un’opera fin dal momento della sua creazione, ma lo si rendeva uno strumento giuridico molto più flessibile e meno monolitico. In sostanza l’autore stesso disciplinava le modalità d’uso e distribuzione di un’opera sotto una particolare licenza. Nacque così il concetto di copyleft (un gioco di parole con left, participio passato di to leave, “lasciare”) ed i principi chiave furono racchiusi in un’apposita licenza chiamata GPL (General Public License) nell’ambito del progetto GNU di Richard Stallmann. La GPL permetteva all’utente di utilizzare il software, copiarlo e modificarlo liberamente alla condizione che se lo avesse ridistribuito o avesse creato altro software derivato avrebbe dovuto mantenere lo stesso regime di licenza.
Saltando di un bel po’, arriviamo alla fine degli anni Novanta e alla nascita di progetti che proponevano di applicare il copyleft non solo in ambito informatico, ma più in generale nel campo dell’informazione e di qualsiasi opera creativa e dell’ingegno. Tra le varie licenze che ogni iniziativa propose, le più determinanti ed oggi note sono quelle diffuse nel 2002 dal progetto Creative Commons, guidato da un gruppo di giuristi di Stanford a cui fa capo Lawrence Lessig.
In soldoni quindi cos’è il copyleft? Semplicemente un modo differente di gestire i diritti d’autore, in maniera tale che questo dipenda dalla volontà dell’autore stesso e non venga così applicato nella maniera tradizionale e standardizzata, bloccando di fatto alcune basilari libertà di scelta come quella di diffusione e diritto di copia gratuita dell’opera.
Applicando una licenza libera alla mia opera specifico direttamente al fruitore cosa è libero di fare con quell’opera e a quali condizioni.
Quali sono gli effetti pratici più immediati allora?
- Innanzitutto si elimina la necessità esclusiva di intermediazione da parte di un partner imprenditoriale (editore, etichetta etc…) o di gestione dei diritti (SIAE etc…), poiché l’autore può entrare in comunicazione ed in contatto diretto con i fruitori finali dell’opera specificando loro come comportarsi mediante l’applicazione della propria licenza.
- Qualora tale partner ci fosse (e spesso è auspicabile), tale sistema porterebbe ad un riequilibrio dei rapporti contrattuali. Per fare un esempio, finora un autore si è trovato generalmente a cedere gran parte se non tutti i diritti al proprio editore che decide come gestirli per trarre guadagno dal proprio investimento (es. produzione e vendita di copie o quant’altro).
- Molta più elasticità e libertà dell’autore di decidere come gestire i diritti anche di singole e diverse opere, nonché adattabilità all’evoluzione continua della comunicazione multimediale.
- Un modello economico equo e sostenibile per il mondo informatico e della produzione intellettuale.
Per vedere come funzioanno nel dettaglio e come applicare in pratica le licenze Creative Commons, consiglio la lettura dell'opuscolo sempre di Aliprandi dal sito www.copyleft-italia-it
SUB TERRA – perché il copyleft?
Il concetto originario di indie e D.I.Y.
Fin qui abbiamo seguito fedelmente Aliprandi, riassumendo il già conciso opuscolo di cui si raccomanda la lettura come introduzione ad un conoscenza consapevole del copyleft.
Perché allora noi abbiamo scelto il copyleft, qual’è nello specifico la posizione di Sub Terra?
Noi siamo “musichieri” di alternative rock e robe simili, ma il discorso a maglie larghe potrebbe adattarsi a qualsiasi tipo di produzione intellettuale, "colta" o "popular" che sia. Tutto è cominciato col recuperare il concetto originario di "indie". Forse pochi lo ricordano, poiché ormai è degenerato in una mera etichetta da scaffale di supermercato per indicare certe sonorità easy, certa moda, certe tendenze per un target di consumo ben determinato. Con questo non si vuole demonizzare tutto ciò che viene prodotto sotto tale etichetta. Noi stessi siamo appassionati di molta roba che rientra nel calderone “indie”, come è oggi normalmente inteso. “Indie” però significava in origine “independent”, e questo niente aveva a che fare con determinati generi di musica rock o pop che fosse. Indicava piuttosto un preciso e consapevole atteggiamento, i cui capisaldi concettuali stavano nel sostanziale disinteresse a problematiche di marketing che avrebbero limitato la purezza e la libertà d’espressione.
Non che impellenze di immediata fruibilità o “vendibilità” non esistessero, ma il bilanciamento era decisamente a favore della libertà di creazione e, per quanto riguarda i “mediatori” come etichette e simili, dei rapporti umani prima del business.
Simili ma più radicali, i movimenti D.I.Y. (Do It Yourself, letteralmente “Fattelo Da Solo”) che nacquero in seno ai mille rivoli del punk, ed in particolare hardcore, elaborarono (in virtù della propria ferrea etica, del messaggio “eversivo” e del forte senso d’appartenenza ad una comunità) un rifiuto radicale ed iconoclasta a qualsiasi tipo di compromesso, preoccupazione commerciale o intermediazione esterna. Autoproduzione ed autodistribuzione divennero quindi delle esigenze primarie, mentre si affinava sempre più efficacemente la capacità di organizzarsi in reti e circuiti veramente alternativi all’interno di una determinata comunità internazionale (attraverso fanzines, distro etc…) .
L’etica punk hc esiste tuttora ed è ben vitale nelle sue ali dure e pure, ma come è comprensibile non esce al di fuori della propria comunità autogestita. “Indie” invece, come si è visto, non è più che un mero contenitore in realtà piuttosto vuoto di contenuti (destino comune questo a tutte le definizioni come grunge, post-rock etc…, create dalle rivistone più per utilità di segnalazione al consumatore finale – senza voler stigmatizzare in assoluto ciò).
Per quanto riguarda Sub Terra, ci sia concesso di recuperare l’attitudine “indipendente” e l’orgoglio D.I.Y. più puri senza sentirci ingenui utopisti. D’altronde la stessa definizione di “label” è piuttosto impropria, perché non siamo un’etichetta in senso tradizionale né potremmo esserlo, ma è utile per esigenze di immediata comunicabilità (non a caso abbiamo pubblicato la parte estesa ed approfondita del manifesto dietro un link, in fondo alla presentazione breve).
Se oggi può esistere ancora qualcosa che abbia anche solo vagamente un poco del nucleo di significato di “indipendente” , questo non può che sposare la filosofia copyleft.
La digitalizzazione e la diffusione di massa della rete hanno abbattuto i costi di autoproduzione e reso possibile l’autodistribuzione come prima mai. Davanti a questi cambiamenti così veloci, imprevedibili e potenzialmente rivoluzionari si può e si deve sperimentare.
Opportunità digitali
Il discorso qui si amplia a molte cose. Innanzitutto, riferita all’ultima affermazione sulla digitalizzazione e sulla rete, la proliferazione di autoproduzioni “scadenti” nel mare magnum di MySpace e simili e poi la crisi e disintegrazione del settore discografico (che si riallaccia alla “crisi” più in generale, come vedremo). Per molti tali fenomeni, dissolvendo il circolo di creazione-distribuzione-fruizione come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, significano rendere molto più difficile se non impossibile per artisti di talento emergere in mezzo all’oceano di mediocrità digitale (portato della “democratizzazione” produttiva), vanificando le già esigue possibilità che un artista aveva di ricevere da questo un equo guadagno.
Stiamo indubbiamente assistendo ad una transizione di notevole portata, e non si sa bene dove andranno a parare quei processi che sono già in atto.
Personalmente non vediamo qualcosa di negativo in tutto questo fiorire di autoproduzioni. Premesso che un uso consapevole e ragionato dell’utilizzo della rete richiederebbe all’uente una critica scrematura e verifica dei suoi contenuti molto più di quanto sia mai necessitato per altre fonti di informazione (il pericolo è proprio di annegare in mezzo a questo mare di cose “inutili”), chi ha talento ed un obiettivo chiaro avrà certo capito attraverso quali canali cominciare a muoversi ed in che modo utilizzare i nuovi mezzi. Le nostre abitudini di ascolto stanno cambiando: si torna ad avere molta più attenzione agli eventi dal vivo (tanto è che i prezzi sono lievitati tantissimo), le tourneé dei grupponi non servono più a promuovere il disco, ma viceversa, il supporto fisico come prodotto di massa sta scomparendo ed allo stesso tempo, paradossalmente, si rivaluta da parte di sempre maggiori cultori la passione per l’oggetto bello e significativamente artistico. Se c’è una crisi è quella della grande industria e di tutta la filiera annessa, che però continuerà a mantenere lo strapotere reinventandosi su nuovi tipi di consumo di massa (le battaglie sulla pirateria e simili non sembrano avere molto successo).
Non vediamo perché per il mondo “indipendente” questa rivoluzione debba essere qualcosa di negativo. Il mercato delle tradizionali “indies” si era trasformato ormai in un mero sottoprodotto
di quello delle majors: cosa comprensibile se volevano sopravvivere. Il web dà la possibilità di riscoprire quello spirito pionieristico sulla scia del quale nacquero via etere le radio libere e le prime etichette indipendenti. Inoltre offre possibilità enormi a chi possiede una salda etica D.I.Y. e non vuole scendere a nessun tipo di compromesso (il pubblico di costui sarà già scremato in partenza per propria consapevole scelta).
C’è solo da sperimentare, e si può almeno sperare di tornare ad un bilanciamento più equo dei rapporti tra autore ed editore evitando per esempio pratiche come l’editoria a pagamento, ormai prese per normali anche e soprattutto dalle “indies”.
La qualità delle produzioni si differenzia ancora per l’investimento che c’è dietro, nonostante una produzione discreta sia ormai alla portata di tutti.
Non è per niente detto che cambiando le carte in tavola gli artisti non abbiano più voglia di investire sulla qualità del loro lavoro perché non gli rientrerebbe nulla. E sei nvece, capendo con intelligenza quali sono le nuove opportunità, accadesse proprio il contrario, dal momento che è diventato impossibile secondo il sistema tradizionale?
Ben più in là di Wharol e della sua visione “cinica” di democratizzazione dell’arte, molti artisti anche fuori dal copyleft (un esempio è Takashi Murakami) hanno cominciato a serializzare e a vendere sotto forma di gadget ed in maniera totalmente autarchica le loro creazioni, mettendo al centro dell’importanza l’evento dal vivo (mostra, esposizione, concerto): per la prima volta l’autore può decidere di fare a meno di un’intermediazione, ed il concetto stesso di underground è ribaltato.
Ritorno al "raggio corto"
E’ qui che il discorso si allaccia a quello più generale della “crisi” e si fa simile ad altri attivi da tempo, come quello del commercio equo e solidale.
Il capitalismo ha già dimostrato di non essere un modello produttivo sostenibile.
Oltre alle enormi sperequazioni, danni, tensioni e conflitti che provoca a livello globale, è matematico che prima o poi collasserà su se stesso, come già sta dimostrando.
La “crisi” attuale può essere piuttosto un’opportunità: cominciare a pensare open e copyleft
significa anche utilizzare i nuovi strumenti tecnologici per creare benessere reale e tornare ad un tipo di economia sostenibile, umano, dalla filiera più corta, che rivaluti il patrimonio delle piccole comunità permettendo a queste di non essere più isolate, ma in contatto con il mondo intero.
Non più un modello produttivo di imposizione dall’alto, da parte di una sola macchina gigantesca, e di un consumo passivo ed acritico da parte di chi compone gli stessi ingranaggi di quella macchina, ma un modello orizzontale che includa tantissimi piccoli-medi nodi produttivi sparsi su tutto il territorio, riscoprendo anche le campagne ed il senso sociale di comunità ed appartenenza, nodi che sono interconnessi in una trama che di fatto non ha limiti di estensione geografica. E’ il significato di una parola come “glocalità”, a cui idealmente ci ispiriamo non rinnegando la nostra estrazione provinciale (in senso lato).
E’ una posizione ed un messaggio che si cela dietro ad una minuscola iniziativa come quella di Sub Terra, forse la cosa più importante dietro alle modeste quattro note che distribuiamo sulle nostre pagine.
Non sappiamo se diverremo mai una piccola “bottega del commercio equo e solidale” della musica. Probabilmente no, e nemmeno ci interesserebbe molto, ma nel messaggio di “cultura open” in senso lato rientra tutto questo.
Per quando riguarda quindi la convinzione che la conoscenza debba essere condivisa liberamente sul web perché possa instaurare un circolo virtuoso di diffusione delle idee, e di conseguenza un modello alternativo e più equilibrato di economia , ci rifacciamo alla presentazione del movimento Costozero che da tempo si batte per la libertà di espressione e d’informazione: (tratto da www.costozero.org )“ […] La libertà di comunicazione interpersonale è espressamente sancita dalla Costituzione Italiana nonché dalla normativa comunitaria ed internazionale. Ma in cosa consiste questa libertà, oggi, in Italia?
Consiste nell'acquisto di strumenti e servizi di comunicazione e di informazione: quello che è un diritto politico del cittadino, un diritto fondamentale per una società che vive nella così detta "era della comunicazione", è considerato niente altro che un business. Siamo esseri integrati con il telefono, il cellulare, la televisione, la radio, il computer e le più nuove tecnologie: ma siamo esseri sviluppati? Abbiamo tutto, ma cosa siamo? Siamo un business, un business a cui è sempre più vietato di pensare, di essere informati obiettivamente, di essere alfabetizzati senza essere manipolati, di far sentire la propria opinione (o addirittura di averne una), di nutrire speranze di cambiamento, di credere in uno straccio di ideale, qualunque esso sia (al punto che ormai avere un'idea buona ma anche concreta significa essere sempre e comunque degli utopisti): ciò che conta è che tutto resti com'è, perché è in questa stasi che trova l'equilibrio l'unico sistema esistente, quello economico. E come reagisce la politica a questa situazione sconfortante? Educa alla rassegnazione e al qualunquismo. Vogliamo che la seriosità del politico continui ad essere scambiata per serietà, la sua dialettica per progettazione, la sua demagogia per amore infinito verso le masse? Se lo vogliamo, è sufficiente non mettersi in discussione. Proprio così, non bisogna mettere in discussione il sistema politico (inesistente), ma noi stessi; siamo noi quelli a cui dobbiamo dare dei sonori ceffoni, non i politici: dobbiamo svegliarci dallo stato di torpore che il benessere ha inflitto a tanti di noi e tornare ad essere non animali da gabbia (una gabbia con ovatta tecnologica idonea al sonno profondo e alla vanità), ma animali politici, persone che, innanzitutto, vogliono capire anche quando non sono in gioco i propri interessi, che non si fermano all'apparenza, che cercano la concretezza e non le rivoluzioni impossibili. [...] Si sta producendo una nuova analfabetizzazione ed una disparità di opportunità tra chi conosce la rete e può accedervi, e chi, invece, ne rimane fuori: non è una mera questione generazionale, economica o culturale, ma riguarda la società nel suo complesso. Non si può porvi rimedio con una semplice propaganda di alfabetizzazione: il Movimento Costozero promuove l'informazione gratuita e l'accesso gratuito ai mezzi di informazione.[...]"
Sub Terra: etica ed estetica
Se Sub Terra non è una label in senso stretto, è un contenitore chiaro ed organizzato che seleziona i propri contenuti e li propone ad una certa utenza ideale. In questo modo già si comincia ad ovviare al problema della perdita nel “mare magnum”. Naturalmente per molti anche noi potremmo rientrare nella categoria “produzioni scadenti”, dal momento che le nostre produzioni (ma già non le distribuzioni) sono realizzate tramite i mezzi a noi disponibili al momento (poco più di semplice home recording) e che per scelta non puntiamo assolutamente a trasformare tutto questo in un lavoro o perlomeno nella nostra principale fonte di reddito. Preferiamo avere un atteggiamento rilassato, più umano se vogliamo, che ci possa rendere la serenità necessaria alla creazione di contenuti che abbiano veramente un valore ed un'onestà non solamente lirico-espressiva, ma anche intellettuale. Se poi appunto diverrà una fonte di “guadagno alternativo”, ovviamente senza mai sbilanciare i sani equilibri, non ci farà certo schifo. Ma sarà molto difficile: un po’ perché siamo davvero troppo punk, ingenui e romantici per ragionare in termini di business, ed un po’ perché ancora è roba da pionieri. La cosa importante è lanciare il messaggio dal nostro umilissimo piccolo. Per quanto ci riguarda quindi, la filosofia alla quale ci ispiriamo è quella del duo indie-pop Humpty Dumpty e Renato Q. , che è anche una lucidissima riflessione sul ruolo che svolgono i social networks e su come potrebbero essere utilizzati. La citiamo ampiamente come se parlasse per noi: tratto dal MySpace di HD (www.myspace.com/dumptyhumpty): “ Credo che se siete passati da queste parti e vi siete imbattuti in questa che è la mia pagina su Myspace abbiate già un’idea approssimativa del contesto in cui ci muoviamo. Sapete a che serve Myspace e cosa ci si può fare, così state lentamente affinando la vostra efficacia: confezionare una bella gif con “Grazie per l’add” a caratteri psichedelici, aggiungere apprezzamenti garbati relativi alla foto dell’eventuale ragazza della band e studiare due righe piene di simpatia e wit da piazzare nei commenti per far intendere a chi detiene la pagina che i primi venti secondi del primo pezzo -che parte in automatico- sono di vostro gradimento. [...] E’ uno dei tanti codici condivisi della vita: sappiamo già muoverci con agilità fra presenzialisti scorreggioni di scarso valore espressivo e artisti dotati di buon talento. Già solo perché su cinquanta utenti che confezionano -più o meno- canzoni uno non ha in totale spregio la Musa potremmo dire che Myspace svolge una grande funzione.
Probabilmente non è un luogo libero (si è mai visto qualcosa di libero che occorressero comunque dei soldi a metterlo in piedi?) e sempre meno tenderà ad esserlo, ma fintanto che dura così com’è, godiamoci le sue possibilità.
Prendiamoci la prima soddisfazione di non avere gran bisogno di leccare disperatamente il culo a questa o quella piccola label senza grandi capitali da investire: del resto dovreste aver già capito che non è in primo luogo il vostro opinabile talento ciò di cui vanno in cerca, quanto piuttosto di qualche forma di hype che circoli già attorno al vostro alias. A loro spetta raccoglierne quanto più velocemente i frutti. Per far ciò occorre che siate più o meno potenzialmente vendibili o che abbiate già venduto sufficientemente per conto vostro. Come dar loro tutto il torto, schiacciate da un mercato totalmente in mano alla volgarità massimalista del capitale musicale proprio adesso che l’indie è dappertutto? Non ci resta che scegliere fra la roba di consumo “alternativa” (indipendente è un termine che in questo contesto ha poco significato) e la roba di consumo delle multinazionali. Le prime sono prodotte con cubase e (se di livello superiore) pro-tools, le seconde in degli studi professionali.
La seconda soddisfazione è non dover, ancora più umiliantemente, leccare il culo a questo o quel giornalista musicale, cartaceo o virtuale. E’ inutile che lo pressiate: se non v’è una qualche forma di hype già formata attorno al vostro moniker è difficile che possa cedere alle vostre insistenze. Se vi ha ascoltato lo ha fatto perché fa il suo lavoro, se non lo ha fatto ha già deciso che voi non fate parte del suo lavoro, e le vostre stronzate non lo convinceranno del contrario.
Ecco, Myspace offre questa possibilità, di bypassare qualcuna delle gerarchie che sino ad oggi hanno monopolizzato la nostra voglia di creare e diffondere la nostra musica.
Qui possiamo scatenare tutta la nostra assenza di talento senza dover per forza oscurare la nostra dignità (e arrivare eventualmente al disco sotto forma di straccio vecchio) e senza dover per forza rompere i coglioni a qualcuno. Certo, niente ci impedirà di soffrire perché, anche se in possesso di talento, nessuno o pochi se ne accorgeranno, ma almeno siamo qui, appena un po’ meno del numero complessivo degli italiani, a sceglierci e ad ascoltarci da soli.
Per render questo luogo non solo un neutro servizio, ma soprattutto affinché in esso si realizzi qualcosa non di semplicemente Utile, ma anche di Bello e Giusto, provate ad ascoltare bene e per intero meno musica e scambiare non soltanto pompini generici per ottenere visibilità sulla pagina altrui (e spesso di gente morta o sciolta) ma motivati e onesti giudizi.
Interferite, opinate, vivete. Giudicare non è reato [...]“.
Ciò non vuol dire che nel corso del tempo non miglioreremo la qualità delle nostre produzioni attraverso investimenti. Il nostro scopo è proprio quello perché amiamo le cose belle e siamo convinti della loro utilità, ma lo faremo con calma e senza condizionare le nostre vite in maniera irreparabile alla ricerca di una svolta “contrattuale” (quella sì utopica) che ci renda famosissimi. Ci basta cominciare ad organizzare eventi sul territorio ed avere il nostro piccolo pubblico, per poi connetterci senza limiti con realtà simili in giro per il web e spostarci dove sarà più idoneo come in una specie di “couch surfing artistico". Il nostro pubblico sarà in un cerchio né troppo stretto né troppo ampio. Poco ci interessano i lustrini indie rock e le relative pressioni: tutto quel mondo finot decadente e boheminène che ormai da tempo popola realtà come quella del M.E.I. di Faenza.
Di conseguenza i contenuti di Sub Terra (mi riferisco ai dischi come alla webzine) sono molto eclettici. Nessun genere prestabilito, nessuna anglofilia parossistica e nessuna ricerca spasmodica ed ossessiva della novità (caratteristiche con cui è stato ben plasmato il popolo indie). Solamente quello che tocca la nostra personalissima sensibilità. Che sia pura avanguardia intellettualistica alla John Cage o il pop o il punk rock provinciale più grezzo ed analfabeta non importa, se per noi ha un senso che espliciteremo all’interno della nostra visione.
D’altronde ci sembra anche stupido metterci ad operare categorizzazioni troppo rigide tra ciò che è “colto” e ciò che è “pop”. Sappiamo che esistono linguaggi molto diversi per un tipo di pubblico molto diverso, ma non per questo (ed entro i nostri stessi limiti culturali e di comprensione) eviteremo di comporre proposte eterogenee creando quindi differenziazioni all’interno della nicchia di pubblico ideale a cui ci rivogliamo, e che siamo convinti esistere. Ci atteniamo solo a quello che pensiamo sia in qualche modo vicino alla nostra idea di Bello e di Utile, nel nostro umilissimo piccolo, evitando di tirare fuori definizioni ingombranti quali “arte” .
Carlo, Cura di Vetralla, 05/09/09
1 commento:
Condivido pienamente il suo punto di vista. In questo nulla in vi e 'una buona idea. Mi associo.
Condivido pienamente il suo punto di vista. In questo nulla in vi e 'una buona idea. Pronta a sostenere voi.
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